home
RASSEGNA STAMPA
Articoli sul Dolore Cronico da segnalare
http://www.iodonna.it/benessere/salute-prevenzione/2017/01/29/una-guida-la-verita-sugli-oppiacei/
http://salute24.ilsole24ore.com/tags/1846/articles
|
Lo yoga come gli analgesici: bastano 20 minuti di meditazione al
giorno per ridurre la sensibilità al dolore. È quan...
|
|
Negli ambulatori dei medici di famiglia fino ad 1 paziente su 3 soffre
di dolore cronico. Questo uno dei risultati dell’indagine ‘Il co...
|
|
Le parole feriscono più della spada. La teoria nota agli amanti
maltrattati dal partner o afflitti da una lettera d`addio h...
|
|
Dichiarano di seguire le Linee Guida ma, di fatto, 1 camice bianco su
2 non misura l’intensità del dolore nei pazient...
|
|
TRE PAZIENTI SU 4 IGNORANO ESISTENZA CENTRI Trovare sollievo al
dolore, ancora un labirinto per molti pazienti affetti da m...
|
|
In Olanda nel 2009 ci sono stati 2.636 casi di eutanasia con un
incremento del 13% rispetto all`anno precedente. ...
|
|
|
|
Quasi 1 paziente su 2 è depresso, il 22% si sente impossibilitato a
vivere e l’11% avverte una riduzione della dignità e del...
|
|
In Italia un paziente su quattro fa i conti con il dolore cronico.
Dall`artrite reumatoide all`emicrania, dalla sclerosi multipla ...
|
|
- Sono 250 mila i malati terminali ogni anno in Italia che necessitano
di cure palliative (fonte Ministero della Salute 2...
|
|
Una parentesi di calore tra i ghiacci. L`estate di San Martino è anche
questo. Per i malati inguar...
|
|
"C`è bisogno di una medicina sostenibile, di una medicina che sappia
prendersi cura del malato inguaribile
|
|
Un disturbo funzionale del cervello che coinvolge le regioni del dolore,
dovuto a un anormale flusso di sangue: s...
|
|
Conosciute, apprezzate, ma in molti casi ostacolate dalla burocrazia o
dalla carenza di infrastrutture e operatori.
|
|
Malati terminali e devoti: secondo una ricerca americana il binomio non
equivale a rassegnazione e preghiera ma piuttosto a&n...
|
|
Poche strutture dedicate, meno di una ogni 250.000 residenti. Pochi
medici specialisti dedicati: 1,2 per 250.000 residenti. E anco...
|
|
Malattie croniche o allo stadio terminale, con un comune denominatore:
il dolore acuto del paziente. Secondo i dati comunicati dal...
|
|
Si chiama "ipnoterapia" e consiste nell`utilizzo medico delle tecniche
di ipnosi per combattere il dolore al p...
|
|
Anche in Italia l`approccio verso la terapia del dolore sta cambiando.
Lo confermano i dati presentati oggi dal Centro Studi Mundi...
|
|
Dalla barriera corallina una sostanza in grado di lenire il dolore alle
articolazi...
|
|
Ha il cuore di silicio ma questo non gli impedisce di alleviare il
dolore dei pazienti. Si chiama AiDKlinik ed è un assiste...
|
|
Farmaci antidolore più facili da prescrivere. Ricettario ordinario al
posto di quello speciale per
|
|
La European Society for Medical Oncology (ESMO), in occasione del
Congresso multidisciplinare di Oncologia dell`ESMO e dell`ECCO (...
|
Lo sport aiuta a sopportare il dolore
Gli atleti tollerano di più il dolore rispetto alla gente comune: dipende dal
sesso, dalle caratteristiche genetiche e dall'attività
Un
atleta infortunato
MILANO - Qualcuno ricorderà Manteo Mitchell, il corridore statunitense che
ha continuato e concluso la prima frazione della 4×400 staffetta maschile alle
Olimpiadi di Londra 2012, nonostante il perone sinistro gli si fosse
fratturato a metà del percorso. Un gruppo di ricercatori tedeschi ha voluto
andare a verificare se è vero che gli sportivi sopportano il dolore molto più
degli altri e per accertarlo hanno esaminato tutti gli studi che negli anni
hanno messo a confronto la resistenza di atleti e gente comune. «Abbiamo
individuato 15 ricerche, che in tutto hanno valutato circa 900 persone»
racconta Jonas Tesarz, dell’Università di Heidelberg. «Alcuni lavori
consideravano la soglia del dolore, altri la durata del tempo di
sopportazione, altri entrambi questi fattori».
LA SOGLIA DEL DOLORE NON CAMBIA - Per
quanto riguarda il livello cui lo stimolo era avvertito come doloroso, il dato
non era evidente, e sembrava discordante da uno studio all’altro, ma poi,
escludendo i risultati delle indagini che potevano avere qualche vizio di
forma, è emerso che la soglia dolorosa non cambia in chi pratica sport. «A
essere diversa è la capacità di tollerarlo» prosegue l’esperto. «Per ridurre
lo stress gli atleti per esempio spesso usano tecniche cognitive come
l’associazione o la dissociazione: si concentrano intensamente su alcuni
dettagli del gioco, o viceversa, pensano a qualcosa di bello che li distragga.
Quest’ultima strategia è più efficace se l’attività è a ritmi bassi o
moderati, la prima quando è più intensa, ma entrambe riescono ad aumentare
anche la resistenza al dolore».
NON TUTTI SONO UGUALI - Non
tutti gli atleti però sono uguali: diversamente da quel che si potrebbe
pensare a uno sguardo superficiale, quelli che si confrontano in un gioco,
soprattutto se in uno sport di contatto, sembrano più stoici di quelli
impegnati in specialità di resistenza. Forse questo dato dipende dal senso di
solidarietà con i compagni, più che dal tipo di attività, come dimostra la
spiegazione data da Mitchell all’arrivo, quando la frattura, che anch’egli
correndo aveva sospettato, è stata confermata dai medici: «Anche se questo è
uno sport individuale, ci sono tre persone che dipendono da te, e il mondo
intero che ti guarda. Non vuoi certo deludere nessuno». Potrebbe essere dunque
la forza della motivazione che spinge a non mollare la presa quando si insegue
un risultato, un record, una medaglia.
ALLENARSI AL DOLORE - Una
motivazione forte quanto quella osservata in contesti molto diversi, per
esempio in guerra o durante difficili operazioni di salvataggio. Difficile
dire se è proprio questa la ragione. Gli stessi autori del lavoro pubblicato
su Pain non
hanno trovato una spiegazione certa alle loro osservazioni. «Sembra che in
alcuni casi la capacità di stringere i denti sia legata alla presenza di
determinate varianti genetiche» conclude l’esperto. «Più in generale si sa che
l’attività fisica determina la liberazione di endorfine, oppioidi naturali
prodotti dall’organismo che potrebbero contribuire ad alleviare la sensazione
dolorosa». La capacità di resistere al dolore però, come quella relativa allo
sforzo, si può allenare, ed è quello che probabilmente fanno molti atleti.
Grazie a questa abilità molti hanno raggiunto il loro obiettivo e sono saliti
sul podio. Attenzione però a non esagerare: il dolore è un campanello di
allarme con cui l’organismo ci chiede di fermarci, per evitare che una piccola
lesione peggiori. Ignorarlo, talvolta, può diventare pericoloso.
3 gennaio 2013 | 16:36
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Roberta Villa
http://www.crescita-personale.it/gestire-emozioni/1775/rabbia-psicologia/1560/a
LA RABBIA IN PSICOLOGIA: LA MASCHERA DEL DOLORE
La rabbia è un'emozione che ha origini antiche e la psicologia ne studia le
varie manifestazioni. In psicologia la rabbia viene indagata sia nei suoi
aspetti manifesti che in quelli più celati e Wilhelm Reich la considerava
un'emozione secondaria rispetto alla frustrazione. Vediamo come la psicologia
spiega l'origine e le maschere della rabbia. Ma la rabbia, a sua volta, cosa
copre?
La rabbia è un'emozione
molto antica e la psicologia da
sempre ne indaga le forme e i contenuti. Chi di noi, infatti, non ha mai sentito
i propri occhi diventare rosso sangue, i muscoli del viso contrarsi in modo
anomalo e visto la propria pelle assumere uno strano colore verdognolo? La
trasformazione nell'incredibile Hulk o nell'Orlando Furioso l'abbiamo provata in
molti e la rabbia ci appartiene più di quanto possiamo immaginare: anche chi è
capace di controllarla o gestirla ha sentito ogni tanto quel canino allungarsi a
dismisura, pronto ad azzannare. E che dire, invece, dei sorrisi cronici a denti
stretti che sembrano esprimere un'intimidazione piuttosto che benevolenza e
affetto? La rabbia ha vari modi di manifestarsi e la
psicologia cerca di scoprire le sue varie maschere e i suoi modi d'essere:
ma se la rabbia usa mascherarsi, a sua volta è la maschera di qualcos'altro. Di
cosa? Rewind: andiamo in ordine.
La rabbia in psicologia: da dove nasce
La scienza, l'antropologia, la psicologia, hanno studiato la rabbia e ne hanno
provato l'antica origine: nasce dalla primordiale
reazione-azione di attacco e fuga e
la sua zona di attivazione si situa nel nostro cervello rettiliano. Secondo Paul Mc
Lean, colui che ha elaborato la teoria
dei tre cervelli, la rabbia era una modalità che permetteva all'uomo la conservazione
della specie e, come tale,
non era una reazione negativa ma una reazione
conservativa ad una reale
minaccia. Quella che noi chiamiamo e trasformiamo in rabbia, quindi, non è il
mostro nero dentro di noi, ma nasce dall'aggressività, dove aggressività sta per
adgredior, ovvero il modo affrontare la vita.
La rabbia in psicologia: come si manifesta
La psicologia ha dimostrato che le
espressioni facciali della rabbia sono identiche in tutte le culture: i
muscoli facciali si tendono, si tende a mostrare i denti come fanno gli animali
quando vogliono intimorire l'avversario, la muscolatura si irrigidisce, la
giugulare comincia a pulsare e il viso si fa paonazzo per un aumento della
pressione, la voce può raggiungere toni alla Farinelli o alla Crudelia Demòn.
Quando compare la rabbia tutto il sistema
simpatico viene shakerato e
attivato, e fanno capolino anche quelle inquietanti goccioline di sudore che
rigano la tempia. Lapsicologia ha
studiato e studia ancora le varie
tecniche che la rabbia usa
per manifestarsi: non pensiamo solo alla rabbia
espressa, alla crisi violenta dove piatti e bicchieri diventano cocci
indifferenziati sul pavimento e ai gestacci che facciamo quando siamo al
volante. La rabbia, spesso, si manifesta in modo più sottile e si cela sotto
false spoglie.
La rabbia in psicologia: come si maschera
La psicologia ha evidenziato che la
cultura ha avuto un effetto inibente sul nostro modo di vivere le emozioni.
La cultura, nel suo aspetto coercitivo, ha modellato, smussato e appiattito la
nostra sfera emozionale e, dando alla rabbia una connotazione esclusivamente
negativa, ne ha inibito le modalità espressive. Il risultato? Che la rabbia ha
cominciato un gioco di travestimenti davvero eccezionale. Avete presente i denti
che si digrignano per intimorire l'altro? Basta aggiungere un bel sorriso ed il
travestimento è fatto. Oppure zampilla sottoforma di buonismo, o ancora si
manifesta come impazienza, con la costante irritazione che spesso ci accompagna,
con gli atti
inconsapevolmente aggressivi che
possiamo compiere giornalmente, come mettere casualmente il sale nel caffè al
nostro amato, guarda caso subito dopo una litigata. Ma che succede se la rabbia
che abbiamo dentro la copriamo e copriamo e copriamo ancora? Succede che quando
esplode diventa pericolosa, succede che cominciamo ad averne paura, che
cominciamo a temere sia la nostra che quella dell'altro, succede che quando si
innesca la miccia, difficilmente si spegne.
La rabbia in psicologia: cosa maschera
La psicologia e
le varie discipline
neuroscientifiche hanno
dimostrato che la rabbia nasce
comereazione alla frustrazione.
Lo stesso Wilhelm
Reich diceva che la rabbia è un'emozione
secondariarispetto alla frustrazione e la frustrazione, noi sappiamo,
nasce dal dolore, nasce dal mancato
soddisfacimento di un nostro desiderio, ovvero, nasce da una
impossibilità di raggiungere il piacere. La rabbia, quindi, nasce
dalla frustrazione ma maschera il dolore. Pensiamoci: quante volte ci
sentiamo addolorati per i più disparati motivi e quante volte siamo capaci di
far uscire il dolore invece della rabbia? La percentuale è bassa, siamo onesti.
Il dolore, nel nostro immaginario, ci rende deboli, la rabbia ci fa apparire
forti, minacciosi, invulnerabili. In un contesto sociale che ci chiede questo,
la rabbia trova pane per i suoi denti, soffoca il dolore e volià, il gioco è
fatto. Siamo sempre tutti incavolati neri. Allora... un motivo c'è!
Giovedì 9 Aprile 2015
La molecola che attiva l’ansia: ecco dove nascono le paure
Ansia e paura hanno lo stesso interruttore nel nostro cervello. La molecola che
le attiva è la stessa che portò Rita Levi Montalcini al Nobel
di Mario
Pappagallo
Ansia e paura hanno lo stesso interruttore al centro del cervello. Lo si
cercava, è stato trovato e adesso si può lavorare per vedere come «spegnerlo».
Ma solo quando la paura diventa malattia, quando il panico è ingiustificato e
paralizza, quando un grave trauma lascia come conseguenza il terrore nel fare
qualcosa. Guidare l’auto, entrare in ascensore, uscire di casa, prendere
l’aereo... Fobie che innescano modificazioni ormonali e fisiche tali da
bloccare una persona, farla star male, attivare meccanismi di difesa
ingiustificati. Utili per anticipare i pericoli reali, negativi quando il
pericolo è inventato. In questi casi, e solo in questi, l’interruttore va
spento o rimesso in equilibrio. Oppure si può studiare come renderlo più
raffinato, quasi predittivo di un pericolo: ansia e paura hanno consentito
all’umanità bambina di sopravvivere, il meccanismo va preservato.
Amigdala, la «telecamera di sicurezza»
Il sistema memorizza il pericolo avvertito da tutti e cinque i sensi, lo
elabora e innesca le contromosse. Per esempio fa distinguere se quello che
sembra un ramo d’albero è un vero ramo o un serpente mimetizzato, se l’auto
che sta arrivando rischia di investirti o non rappresenta un pericolo. Questa
«telecamera di sicurezza» al centro del cervello si chiama amigdala, il
pannello di comando è adiacente e si chiama talamo. Si trovano in un’area
della corteccia cerebrale che più si studia più assomiglia alla centrale di
comando psico-fisico-emotiva dell’intero organismo. Tutto è connesso e tutto
lì, in quell’area, interpreta dati e innesca reazioni.
40 milioni di ansiosi nel mondo
Il circuito nervoso responsabile dei disordini dell’ansia e delle fobie, che
nel mondo affliggono 40 milioni di adulti, è stato scoperto da due gruppi
indipendenti: uno, guidato da Bo Li, del Cold Spring Harbor Laboratory (Cshl)
di New York; l’altro, con a capo Gregory Quirk, dell’università di Porto Rico.
Entrambi firmano la pubblicazione su Nature .
Individuato nei topi, il circuito svolge un ruolo chiave nell’organizzazione
della memoria dei ricordi traumatici. È difficile immaginare, rilevano gli
autori, che un’emozione intangibile come la paura sia codificata all’interno
di circuiti nervosi. Invece è così: è memorizzata e organizzata in un’area
specifica del cervello. «In precedenti ricerche - spiega Li - abbiamo scoperto
che l’apprendimento della paura e del relativo ricordo sono gestiti dalle
cellule nervose nell’amigdala centrale». E ora il passo successivo. Gli
scienziati hanno visto che l’amigdala centrale è governata a sua volta da un
gruppo di neuroni che formano il nucleo paraventricolare del talamo (Pvt), una
regione del cervello estremamente sensibile alle sollecitazioni e che agisce
come un sensore sia alla tensione fisica sia a quella psicologica.
Le Bdnf
Spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di neuroscienze del
Fatebenefratelli di Milano: «Queste due aree sono legate da messaggeri
chimici, molecole chiamate Bdnf (Brain-derived neurotrophic factor), note per
essere implicate nei disturbi d’ansia». Le Bdnf sono fattori di crescita che
svolgono un ruolo importante nello stimolare la nascita di nuovi neuroni e di
nuove connessioni tra questi. Secondo Bo Li potrebbero diventare presto il
bersaglio di nuovi farmaci per il trattamento dell’ansia e delle fobie. O per
modulare ansie e fobie. Le Bdnf parlano italiano: la prima a essere scoperta,
negli anni 50, è quel fattore di crescita neuronale (Ngf) che consacrò Rita
Levi Montalcini premio Nobel nel 1986.
LEGGI TUTTO
Raccomandazioni FDA per oppiacei con proprietà abuso-deterrenti
La
Food and Drug Administration americana ha elaborato un aggiornamento delle
raccomandazioni per le aziende produttrici di farmaci oppiacei su come
dovrebbero essere condotti e valutati gli studi, per determinare se una data
formulazione ha proprietà abuso-deterrenti. Il documento, di 26 pagine, è consultabile
online.
Stato
confusionale acuto nei pazienti anziani con frattura di femore
Uno
studio presentato al Meeting 2015 della American Academy of Orthopedic Surgeons,
AAOS (Las Vegas, 25-28 marzo), pone ancora una volta l'accento sulla elevata
prevalenza e sulle gravi conseguenze dello stato confusionale acuto nei pazienti
anziani ospedalizzati per frattura di femore. I dati presentati ribadiscono a
tutti coloro che si occupano di terapia del dolore che una corretta valutazione
con strumenti adeguati, unitamente a un tempestivo trattamento del dolore nei
pazienti anziani con frattura di femore, può portare notevoli vantaggi di salute
per l'anziano fragile, riducendo i tempi di degenza e aumentando le possibilità
di un rientro rapido al proprio domicilio. Leggi
tutto
09 aprile 2015
10/10/2014 14:04
«Quando
cominciai a occuparmi della marijuana nel 1967, non dubitavo che si trattasse
di una droga molto nociva che, sfortunatamente, veniva usata da un numero
sempre maggiore di giovani incoscienti che non ascoltavano o non potevano
capire i moniti sulla sua pericolosità. La mia intenzione era di descrivere
scientificamente la natura e il grado di questa pericolosità. Nei tre anni
successivi, mentre passavo in rassegna la letteratura scientifica, medica e
profana, il mio giudizio cominciò a cambiare. Arrivai a capire che anch’io,
come molte altre persone in questo paese, ero stato sottoposto a un lavaggio
del cervello. Le mie credenze circa la pericolosità della marijuana avevano
scarso fondamento empirico. Quando completai quella ricerca mi convinsi che la
cannabis fosse considerevolmente meno nociva del tabacco e dell’alcool, le
droghe legali di uso più comune».
Leggi Tutto
Da DOLOREDOC Data: 29/09/2011
Dolore o
contatto fisico: trentacinque settimane per imparare la differenza
Dettaglio
Quando iniziamo a comprendere la differenza tra contatto fisico e dolore ? La
risposta arriva da un gruppo di ricercatori dell'University College di Londra,
il cui studio è stato pubblicato sulla rivista Current Biology . La capacità di
distinguere tra uno stimolo doloroso e un semplice contatto si colloca a cavallo
fra la 35a e la 37a settimana di gestazione.
E’ un risultato che può essere molto importante nel trattamento e la cura di
neonati prematuri, che spesso mostrano una sensibilità al dolore differente da
quelle normale.
Poiché un neonato non può esprimersi chiaramente con le parole e quindi non
può dire esattamente quando una sollecitazione gli porta dolore o no, i
ricercatori hanno esaminato le registrazioni elettroencefalografiche della loro
attività cerebrale.
“I bambini prematuri che hanno meno di 35 settimane hanno risposte cerebrali
simili di fronte a un'esperienza tattile o dolorosa - spiega Rebeccah Slater,
che ha partecipato alla ricerca - successivamente il cervello inizia a elaborare
i due tipi di stimoli in modo distinto”.
Studi recenti hanno sottolineato l’importanza, durante la formazione dei
circuiti cerebrali, di caratteristiche “esplosioni” di attività neuronale,
spontanea ed evocata, in uno schema che nell’adulto si trasforma nella risposta
a degl’input sensoriali.
L'analisi dell'EEG dei neonati dimostra che il cervello inizia a produrre
risposte diversificate fra il semplice tocco e uno stimolo doloroso a un’età
compresa tra le 28 e le 45 settimane di gestazione. “La leggera ripetuta
stimolazione nocicettiva del tipo usato in questo studio è parte della normale
terapia intensiva neonatale - afferma Lorenzo Fabrizi, autore della ricerca - La
nostra scoperta, che il tocco della lancetta al tallone aumenta l'attività
neuronale esplosiva nel cervello fin dalla più tenera età, solleva la
possibilità che l'eccesso di questo tipo di input sensoriali possa turbare la
normale formazione dei circuiti corticali, - continua l’esperto - e che questo
sia un meccanismo sottostante a conseguenze a lungo termine nello sviluppo
neurologico e in particolare all'alterata reazione al dolore nei bambini nati
pretermine”.
Fonti: http://www.cell.com/current-biology/abstract/ http://lescienze.espresso.repubblica.it
http://www.edizionioggi.it/cronaca/2011/
Data: 29/09/2011
Titolo:
Identificato il gene responsabile del dolore cronico
Dettaglio
La colpa del dolore persistente è di un gene scritto nel nostro codice ovvero
HCN2, responsabile del dolore cronico ma non di quello acuto. La scoperta, che
apre le porte a nuove e più efficaci terapie antalgiche è frutto del lavoro di
un gruppo di ricercatori inglesi dell'Università di Cambridge ed è stato
pubblicata sul magazine Science.
La scoperta ha vaste implicazioni in campo medico e potrebbe portare alla
sintetizzazione di farmaci in grado di fermare la proteina prodotta dal gene
HCN2 e quindi portare notevoli benefici anche nei piccoli dolori della vita
quotidiana.
Gli scienziati inglesi che si sono occupati della ricerca hanno isolato il
gene in questione dai nervi deputati alla percezione del dolore nei topi e li
hanno stimolati elettricamente per verificare il loro comportamento in assenza
dell’HCN2. Inoltre, hanno analizzato alcune cavie geneticamente modificate a cui
il suddetto gene era stato del tutto eliminato. Sottoposti a stimoli dolorosi, i
ricercatori hanno potuto appurare che in assenza del gene il dolore non si
sviluppa. In realtà, il dolore è di due tipi: quello di tipo infiammatorio
tipico delle artriti e delle ustioni e che alla fine danneggia le terminazioni
nervose. E quello neuropatico che si verifica quando i nervi sono danneggiati.
E’ proprio sulla seconda tipologia di dolore persistente che si è concentrata la
ricerca, perché tra l’altro è quello più comune, a più lunga durata e più
resistente ai farmaci attualmente in circolazione. "Abbiamo indagato su come
spegnere il gene HCN2 per bloccare il dolore neuropatico, tipo di dolore cronico
che si manifesta quando i nervi che trasmettono gli stimoli dolorosi risultano
danneggiati - afferma Peter McNaughton, primo autore dello studio – con il
mio team siamo riusciti a inibire il funzionamento del gene in un gruppo di
topi, liberandoli dal dolore neuropatico cronico senza però impedire loro di
avvertire dolori acuti - meccanismo indispensabile per evitare danni
accidentali".
Data: 25/07/2011
Titolo:
Terapia del
dolore: la chiave del successo è nel DNA
Dettaglio
I nostri geni influenzano la percezione del dolore e, di conseguenza, la
risposta ai farmaci che servono per calmarlo. A studiare la correlazione tra Dna
e la soglia del dolore sono stati i ricercatori dell’Istituto Nazionale Tumori
di Milano, in collaborazione con l’Università Norvegese di Scienze e Tecnologia
di Trondheim.
Quest’analisi genetica, condotta su oltre 1000 pazienti trattati con farmaci,
ha messo in luce per la prima volta l’esistenza di varianti relative a geni che
controllano la trasmissione del segnale nervoso del dolore. Tra le otto
variazioni individuate, importanti sembrano essere quelle che coinvolgono il
gene RHBDF2, che ha una funzione ancora sconosciuta, e il gene SPON1, che regola
la produzione di una proteina che favorisce l’adesione delle cellule nervose
sensoriali e la crescita di neuriti, una sorta di “prolungamenti” dove passa
l’impulso nervoso.
“L'aspetto originale del programma di ricerca – afferma Augusto Caraceni,
direttore della Struttura di cure palliative e terapia del dolore dell’Istituto
Nazionale dei Tumori - è stato di cercare di affrontare il problema della
risposta agli oppioidi combinando la variabilità clinica con quella genetica”.
“Questa ricerca – aggiunge Tommaso Dragani, responsabile della struttura di
Basi molecolari del rischio genetico e modelli poligenici dell’Istituto
Nazionale dei Tumori - apre la strada a ulteriori studi che aiuteranno a
tagliare su misura la terapia del dolore per ogni paziente con neoplasia».
Lo studio, condotto in collaborazione tra 17 centri ospedalieri di 11 paesi
europei e pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Clinical Cancer
Research, edita dall’American Association for Cancer Research, è il primo lavoro
ad aver analizzato l’intero genoma dell’uomo e non solo alcuni specifici geni.
Jeffrey Mogil, dell’Università McGill di Montreal (Canada) ha fatto le prime
rivelazioni grazie a risonanza magnetica funzionale, registrando quale area del
cervello si “eccitava” nell’ istante in cui volontari sani venivano sottoposti a
stimoli dolorosi di diverso tipo. La seconda rilevazione è avvenuta invece
studiando i topi (il cui genoma differisce solo di un 3% da quello umano). Il
tipo di percezione del dolore che ognuno ha dipenderebbe quindi sia dai geni sia
da fattori ambientali e psicologici o emotivi. Questi influenzano anche la
risposta di alcuni soggetti ai farmaci antidolore.
Data: 07/07/2011
Titolo: Legge
38 del 2010:
Anche il dolore cambia da una Regione all'altra Dettaglio A pochi giorni
dall’IMPACT 2011, il summit che ha visto riuniti a Firenze esperti e tecnici sul
tema della lotta al dolore, si analizzano i risultati della ricerca “Pain in
Europe”, l’indagine più ampia effettuata finora sull’argomento. Emerge che
soffre di dolore cronico non oncologico, dovuto cioè a patologie quali
osteoporosi, artriti o lombosciatalgie, il 19% degli europei e addirittura il
26% degli italiani (1 su 4), pari a 15 milioni di connazionali, con punte del
40% tra gli over 65 e valori ancora più elevati tra le donne (il 49% delle
casalinghe).
Un problema da non sottovalutare quello del dolore che in Italia, in termini
di normativa, ha visto la presenza della legge 38/2010. A 15 mesi dall’entrata
in vigore di questa legge, Franco Gensini, presidente del Comitato scientifico
Impact 2011 e preside della facoltà di Medicina dell’Università di Firenze
propone i nuovi obiettivi a cui aspirare: “In quest’ultimo anno, Società
scientifiche, Associazioni e Fondazioni hanno dato vita a un intenso programma
di attività formative e informative, rivolte sia ai propri soci sia ai pazienti,
con l’obiettivo di dare un impulso reale a quanto previsto dalla legge 38. Uno
dei punti di forza della nuova normativa, del resto, è l’aver previsto un
modello organizzativo basato sulla gestione multidisciplinare del problema”.
Dal canto suo Guido Fanelli, coordinatore della Commissione ministeriale
Terapia del dolore e cure palliative, ricorda come in Europa l’esperienza
italiana sia stata valutata con estremo favore: “Dopo i primi mesi di
incertezza, dovuta al carattere così tecnico e innovativo della Legge, le
Regioni si stanno adeguando in modo continuo e sistematico; tra queste:
Piemonte, Sicilia, Emilia Romagna, Veneto, Lazio, Lombardia e ora anche il
Friuli; stimo che almeno 35 milioni di persone siano ormai sotto delibera
regionale".
La legge 38 del 15 marzo 2010, con le sue disposizioni per garantire
l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, è a applicata
parzialmente in alcune Regioni, nove hanno presentato progetti specifici per
poter usufruire dei finanziamenti previsti dall'articolo 12 della legge.
Per quanto riguarda infine la richiesta di un monitoraggio più stringente
della qualità assistenziale, Guido Fanelli, si è detto convinto che: “uno
strumento estremamente utile sarà proprio il “cruscotto”, che il ministero ha da
poco attivato: uno specifico software per rilevare la tipologia delle
prestazioni ospedaliere e monitorare le prescrizioni”.
AGI - Lun 16 Apr 2007
(AGI) - Londra, 16 apr . - Un cioccolatino che si scioglie in bocca fa piu'
effetto di un bacio languido. E' quanto assicurano i ricercatori che hanno messo
a confronto l'attivita' cerebrale e cardiaca che si registra nel corso delle due
"esperienze": nemmeno il bacio piu' appassionato puo' competere con il piacere
che procura il cioccolato. "Questi risultati ci hanno davvero sorpreso e
intrigato - ha detto il dottor David Lewis, lo psicologo che ha coordianto la
ricerca. - Avevamo previsto che il cioccolato, specie quello amaro, potesse far
aumentare il ritmo cardiaco,dato che contiene sostanze fortemente stimolanti,
ma la durata di questo innalzamento e l'intensita' dei suoi effetti sono
qualcosa che nessuno di noi aveva previsto". Nel momento in cui il cioccolato
comincia a sciogliersi in bocca, secondo lo studio, il cervello viene stimolato
con una intensita' molto superiore a quella indotta dall'eccitazione del bacio,
e per un tempo quattro volte piu' lungo. Il cioccolato e' pure un acceleratore
del battito cardiaco: le pulsazioni possono passare dalle 60 a riposo alle 140
che seguono la sua assunzione. Anche un bacio fa letteralmente battere il cuore,
ma, a quanto pare, molto meno. -